“In piedi nei piedi il coraggio che ho, che mi porti lontano per sentire vicino;
e metto i miei piedi nella vita che c’è [..]”1
“Spogliarsi nudi per i poveri è facile, vestire i panni del povero è la vera sfida”, e io aggiungo
che sempre vestire i panni dell’altro, in ogni situazione, è sfida. Ed in Africa io ho sentito di
essere l’Altro, il Diverso, per chi incontravo. A casa sua . Non ero più l’ospitante, ma l’ospite.
Ed ho incontrato molti modi di essere e di stare nella relazione: incontro, accoglienza,
diffidenza, entusiasmo, allontanamento, paura, curiosità. Ho sentito, laggiù , che cosa può
provare l’Altro quassù . E attraverso l’esempio di don Romano ho sentito le fatiche e le
opportunità che può portare l’incontro con un’altra cultura, il farsi Altro da sè, senza smettere
di appartenere alla cultura originaria. Sentire che la differenza arricchisce di visioni, di
strumenti per capire il mondo, per conoscere l’uomo (che molto si assomiglia ad ogni
latitudine). Mettersi nei panni dell’altro è significato anche non riempire ossessivamente le
giornate; il coraggio di rispondere “Niente” alla domanda “Che cosa hai fatto quando eri
giù?”. Ho fatto poco, ma incontrato molto. Incontrato persone e situazioni, anche di povertà,
ma molto spesso solo materiale, che rifletteva una grande ricchezza di cuore, di speranza e
di desiderio di cambiamento, di sogni, che arrivava dagli sguardi e dai sorrisi di ogni persona
incontrata.
Che cos’hanno visto i tuoi occhi? Cosa ricorda il tuo cuore?
Ho visto e ascoltato raccontare un’Africa reale diversa rispetto ai tanti slogan e cartoline che
riescono solo a stereotipizzarla. Un’Africa dove “ogni mattina un leone si sveglia”, ma non è
sicuro che tu riesca a vederlo, mentre di gazzelle ne vedi tante e non solo di mattina; dove le
“stelle sull’Africa” le vedi quando il cielo non è coperto dalle nuvole o illuminato dalla luna
piena. Ho visto persone JOY-FULL anche con i maglioni bucati sui gomiti o con le pezze ai
pantaloni, o danzare a Messa come a una festa. Il mio cuore custodisce gli occhi accesi e i
sorrisi raggianti di ogni bambino incontrato, che è sempre stato “per una volta sola”. Ho
sentito che potevamo comunicare, quando era impossibile farlo con le parole. Ricordo
strade iniziare e non finire più, con centinaia di dossi e buche nel frattempo. Ho visto sogni
fiorire da baracche e fango. Mi è capitato di sentirmi “soldi che camminano”. Ma mi sono
anche sentita toccare e studiare le mani, la pelle e i capelli che i bambini percepivano così
diversa dalla loro.
Ho visto che ci sono molti modi di incontrare e aiutare l’altro; ho sentito la vita. Ed ho visto
curare la vita. Attraverso le mani e l’attenzione di Andreina per i bambini di Nanyuki; nella
direzione della responsabilità attraverso il gesto di don Romano di far pagare l’acqua del
Motitu Water Project 2; nell’occhio attento della comunità locale per i suoi giovani, grazie al
progetto Juhudi Youth 3. Ho potuto vedere che non è “il bianco” (mzungu) che va per aiutare, ma che le risorse ci sono anche là e anche là ci sono persone in grado di attivarle per
guardare al futuro, per avere cura del futuro.
Ho capito che, come ogni cosa, anche l’Africa è complessa e va avvicinata, conosciuta,
scoperta per innamorarsene e viverla.
Hakuna matata!
Marta Fedrigo e Dalila Stecco
Giovani missionarie del PEM
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